Maurizio Peroni

LA VOCE DELLA TIPICITA' DEI VINI DELLA TRADIZIONE PICENA E FAMILIARE !
THE VOICE AND THE UNIQUE CHARACTER OF THE FAMILY AND PICENO TRADITION !

martedì 25 gennaio 2011

TECNICHE AGRARIE: IL METODO SIMONIT-SIRCH

Unica nel suo genere, questa Scuola Italiana di Potatura della Vite (questo il
suo nome) è stata ideata tre anni fa dagli agronomi Marco Simonit e Pierpaolo Sirch.
Oggi è presente in sette regioni (Piemonte, Valle d’Aosta, Trentino Alto Adige, Friuli Venezia Giuli, Lombardia, Toscana e Campania).“Sui banchi, direttori, tecnici e operai della filiera viticola – spiega l’ideatore Marco Simonit - ma anche studenti,appassionati di viticoltura. E tra le novità di quest’anno la possibilità
di fare lezione via web”. Previste 32 ore di incontri,suddivise tra il periodo invernale e quello primaverile per poter seguire le varie fasi della potatura. Il sistema utilizzato è quello messo a punto dagli stessi ideatori Simonit e Sirch,
frutto di vent’ anni di sperimentazioni nei vigneti con interventi mirati a raddoppiare l’età delle viti.“La maggiore difficoltà è stata quella di trasferire le vecchie tecniche di taglio nella moderna viticoltura,rappresentata in particolare dai più intensivi sistemi di coltivazione a spalliera, come il Guyot e il cordone speronato",precisa Simonit. Poi aggiunge: “Il nostro è un metodo soft, il meno invasivo possibile che si basa sulla gestione manuale della pianta, per lo meno nella fase finale e più importante, il taglio”. Tra gli obiettivi della Scuola di Potatura, che ha la sua sede centrale a Udine, che si autofinanzia (280 euro ad iscritto) e che ha il sostegno dei vari enti locali delle città dove si svolgono le lezioni, c’è il
recupero dell’antico mestiere del potatore da applicare alla moderna viticultura. “Il segreto è molto semplice: si tratta di rispettare la pianta, favorire il suo sviluppo naturale senza forzare troppo, con tagli eccessivi, la capacità biologica della
vigna”, concludono i due ideatori del metodo. Una possibile prospettiva di lavoro nel
settore? “Le risposte e l’interesse dei giovani ci fanno ben sperare”, conclude Simonit. Per i neopotatori futuro assicurato.

sabato 22 gennaio 2011

LE SUPERPOTENZE DEL VINO

La Francia, con 419 milioni di casse (da 9 litri) riconquista nel 2010 il podio
di primo produttore mondiale di vino superando l'Italia. Non è l'unica novità dell'anno appena finito: la Cina entra tra i top ten dei produttori, piazzandosi al
settimo posto prima del Cile e dopo l'Australia, con una crescita stimata del 77%
entro il 2014. E' la fotografia scattata da uno studio realizzato per Vinexpo di Bordeaux dall'International wine and spirits research (Iwsr), istituto di ricerca britannico, che incorona la Cina motore produttivo del settore, davanti a Stati Uniti e Russia, con “il più forte aumento al mondo – dicono gli esperti Iwsr – in cinque
anni”. La notizia ha colpito la stampa francese al punto che il quotidiano economico Les Echos le ha dedicato un servizio in prima pagina. “La Cina dove oggi i consumatori di vino sono circa cento milioni non cesserà di stupirci”, ha spiegato
a Les Echos il direttore generale di Vinexpo, Robert Beynat, ricordando che nel
2007 la Cina non era nemmeno nella top ten. La crescita esponenziale della viticoltura cinese (soprattutto nella regione a sud di Shangai) è sostenuta da forti investimenti locali ma anche europei. Lo scenario mondiale vedrà comunque ai primi
posti sempre Francia, Italia e Spagna che garantiscono oggi oltre metà della produzione mondiale. I rosati registreranno la maggiore crescita (+8% entro il 2014), anche se rappresentano solo il 9% della produzione; bene anche i vini effervescenti (+6%), i rossi (+4%) e i bianchi (+2,5%). I consumi complessivi, secondo lo studio dell'Iwsr, cresceranno del 3% tra 2010 e 2014, dopo la flessione osservata nel periodo 2007-09, con cali dell'1% in Italia e del 4% in Francia. Gli Stati Uniti
saranno nel 2012 il principale mercato mondiale, davanti a Italia e Francia, che resta leader nell'export in valore mentre l'Italia sarà prima ma solo per volumi.

IL FUTURO DELLA VITE

L’affacciarsi di nuove potenziali malattie per la vite, la minaccia costante di quelle conosciute, come l’oidio o la fillossera, e la necessità di ridurre i trattamenti chimici dettata da esigenze ambientali, da direttive normative e, forse, anche dal marketing, secondo gli scienziati americani, dipende dallo sviluppo di nuove varietà di uva, da studiare grazie alla conoscenza sul Dna della vite. Lo sostiene uno studio Usa della Cornel Univesity, guidato da Sean Myles. Due gli asset su cui si fonda: il primo è che tutte le più diffuse varietà di vite sono della stessa famiglia, quella della Vitis Vinifera, addomesticata 5-6.000 anni fa tra l’Armenia e la Turchia, e, avendo subito incroci tra varietà in maniera “molto limitata”, sono più esposte alle malattie; il secondo è che i ricercatori Usa hanno mappato il genoma di più di 1.000 campioni di vite, utili per studiare varietà resistenti alle malattie. Solo in Australia, si parla di oltre 100 milioni di dollari all’anno. E in Europa, che produce il 70% del vino mondiale, c’è anche una proposta della Commissione Ue per eliminare, nel 2013, l’utilizzo di sostanze “ non essenziali”. Per questo gli scienziati cercano di sviluppare nuove varietà di uva immuni alle infezioni, sia con l’ibridazione con specie resistenti, “lunga e costosa”, che con la manipolazione dei geni. E qui entrerebbero in campo mappe genomiche di oltre 1.000 campioni, che collegano dei “markers” a tratti come l’acidità o la resistenza alle malattie. “Conoscendo questi tratti, è possibile
trapiantare le piantine, guardare il Dna appena si ottiene il tessuto della prima foglia, e tenere quelle con i profili genetici che ci interessano. Risparmiando molto tempo e denaro”, ha detto Myles. E,nonostante resistenze commerciali e culturali in questo senso, il cambio di mentalità, secondo Myles “deve avvenire. Non possiamo continuare ad utilizzare le stesse culture per i prossimi mille anni” .

domenica 16 gennaio 2011

ARMENIA: TRA PASSATO E FUTURO ENOLOGICO

Dopo che in Armenia è stata scoperta una cantina di 6.100 anni fa, probabilmente la più antica del mondo, ai piedi del monte Ararat, dove si vuole che si sia incagliata la biblica Arca di Noè, non c’è solo il passato della viticoltura, ma anche un presente, che parla italiano. È quello del progetto della Zorah Wine’s, dell’imprenditore della moda Zorik Gharibian, che, con un investimento iniziale da 1 milione di euro, ha chiamato a seguirlo l’agronomo Stefano Bartolomei e l’enologo Alberto Antonini, per riscoprire le potenzialità vinicole della culla antica dell’enologia e i suoi vitigni autoctoni. E così è stato: “nella valle del Yeghegnadzor, nel villaggio di Rind, vicino a dove è stata scoperta l’antichissima cantina, abbiamo fatto delle selezioni massali, e tra i vitigni che stiamo studiando - spiega Bartolomei - ce n’è uno, in particolare, l’Areni, che dà il nome anche ad un villaggio vicino”. La cosa più affascinante è che lì non è mai arrivata la fillossera, non si usano portainnesti, ed è molto probabile che il vitigno sia
uguale a come era migliaia di anni fa, “anche perché la zona è isolata da secoli e non si trovano tracce di vitigni “stranieri”. L’Areni è un vitigno rosso, dalla buccia molto spessa, che gli consente di non subire le grandi insolazioni che ci sono ai 1.300 metri di altitudine del vigneto. Nell’estate del 2011 arriverà sul mercato il primo vino prodotto, in 20.000 bottiglie. Noi - aggiunge Bartolomei - abbiamo
portato un po’ di sapere e di tecnologia italiana, abbiamo fatto un vigneto specializzato ad alta densità cercando di fare basse produzioni, maturazioni un po’ più lunghe e soprattutto un po’ di pulizia in cantina. Dalle prime degustazioni, sono vini con un frutto persistente, noi stiamo lavorando su concentrazioni e tannini per farne un vino importante. Usiamo barrique armene, che hanno un legno molto compatto e poi abbiamo riabbracciato le vecchie tradizioni locali di mettere il vino dentro delle anfore interrate per conservarlo”. Non resta che aspettare per bere un sorso di storia millenaria ...

ARMENIA: CASA VINICOLA DI 6000 ANNI FA

Semi di uva, resti di uva spremuta, tralci di vigna disseccati, un torchio rudimentale, un tino in argilla per la fermentazione, dei cocci di terracotta impregnati di vino, una tazza e una ciotola per bere: un’unità completa per la produzione del vino di 6.100 anni fa, la più antica conosciuta finora, è stata
scoperta in una caverna in Armenia. Lo ha annunciato un’equipe internazionale di archeologi, guidata da Gregory Areshian, direttore dell’Istituto di Archeologia Cotsen dell’Università della California. Al di là del valore della scoperta, questo è solo l’ultimo successo dell’“archeo-enologia”, che anche in Italia alcuni produttori hanno iniziato ad indagare, da Feudi di San Gregorio, e ancor prima da Caprai, che hanno studiato i “patriarchi” dei loro vitigni principe, l’Aglianico e il Sagrantino, o come Podere Forte, con gli studi sull’origine della vite selvatica. Perché questo interesse per il passato? “Intanto ci sono strumenti d’analisi molto più sofisticati e precisi - spiega Attilio Scienza, tra le massime autorità dell’enologia mondiale e alla guida di molti di questi progetti - prima bisognava utilizzare fonti letterarie e documenti, ma senza riscontri chimici o biologici. Oggi tra spettografie che trovano tracce anche da piccolissime quantità di materiale, la biologia molecolare e il Dna, si aprono prospettive incredibili. Perché quello che è rimasto di più importante non sono i contenitori o le cantine, ma i vitigni, veri testimoni della storia della viticoltura. E poi il produttore vuole dare al suo vino una dignità
diversa da quella commerciale, cercando le sue radici profonde. La ricaduta è enorme, il consumatore ha bisogno di stimoli diversi dal passato, quando il vino era tradizione e abitudine quotidiana. Questi stimoli culturali rimettono in gioco il vino, che diventa prodotto “mitico”, particolare”.

UN INVESTIMENTO SICURO

Il vostro anno finanziario non è stato felice? Consolatevi un po’, se avete in cantina qualche bottiglia di Sassicaia della Tenuta San Guido, di Masseto e di Ornellaia della Tenuta dell’Ornellaia, qualche etichetta di Angelo Gaja o il Solaia di Antinori. O ancora di più, qualcuno degli altri 95 vini -praticamente tutti francesi - del Liv-Ex (London International Vintage Exchange Fine Wine Index;
www.liv-ex.com), l’indice che misura la redditività degli investimenti sui grandi vini. Non solo perché brindereste davvero in modo eccellente. In un 2010 in cui, per esempio, Piazza Affari ha lasciato sul campo il 12%, il Liv-Ex Fine Wine 50, che monitora i premier cru di Bordeaux nell’andamento del loro valore su dieci diverse annate, ha fissato in un +57% la loro crescita in valore nel 2010, rompendo la
barriera dei 400 punti a dicembre. Tanto per dare un’idea, l’oro, principale bene rifugio nei momenti di crisi, nello stesso periodo, è aumentato del 35% e il petrolio del 20%. Manco a dirlo, a trainare questa crescita di valore, come il resto dell’economia mondiale, sono i mercati asiatici, soprattutto Cina e Hong Kong, dove è cresciuta moltissimo la domanda di grandi Chateaux bordolesi, vini di Borgogna,
ma anche dei Sauternes. E gli italiani? In una classifica di valore interna all’indice, che vede nelle prime posizioni nomi come Chateau Lafite Rothschild, Chateau Latour e Chateau Mouton Rothschild, il primo vino tricolore è il Sassicaia, alla posizione n. 21, seguito da Masseto e Ornellaia (posizioni n. 31 e
32), Gaja (64) e Solaia (65). 5 vini simbolo che fanno dell’Italia il Paese più presente dopo la dominante Francia. Gli altri “stranieri”, infatti, sono 3 australiani (Penfolds Grange, Dominus e Henschke), 3 Porto (Taylor’s, Fonseca e Dow), uno spagnolo (Vega Sicilia) e uno statunitense (Opus One).

DANIELE CERNILLI LASCIA IL GAMBERO ROSSO

I rumors che circolavano da tempo oggi sono diventati ufficiale: finisce la “storia” tra Daniele Cernilli e il Gambero Rosso. Una storia lunga un quarto di secolo, iniziata negli anni ’80, quella tra il giornalista enogastronomico romano, riconosciuto come il migliore degustatore d’Italia e unico italiano, peraltro, che la rivista britannica Decanter colloca stabilmente nella sua “Power list”, ovvero la
classifica dei 50 personaggi che governano il mondo del vino internazionale (paragonando i “Tre Bicchieri” ai 90 punti di Robert Parker). E proprio i “Tre Bicchieri”, il celeberrimo premio che ogni anno “Vini d’Italia” attribuisce al meglio dell’enologia italiana, è stata un’invenzione di Cernilli, che è stato curatore di questa guida fin dalla sua prima edizione (1987). Curatore storico, quindi, ma anche
direttore responsabile nelle edizioni 2010 e 2011, l’ultima che ha firmato. Fra gli artefici del Gambero Rosso rivista, fin dai suoi esordi, nel 1986, ha svolto quasi interamente la sua attività nell’alveo di quello che è diventato il gruppo editoriale del food & wine più importante d’Italia, anche come autore e animatore del canale
tematico Gambero Rosso Channel (dal 1999).